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  • Immagine del redattore: Paola Foggetti
    Paola Foggetti
  • 21 mag 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

“La differenza tra genetica ed epigenetica può essere paragonata alla differenza che passa fra leggere e scrivere un libro. Una volta scritto il libro, il testo (i geni o le informazioni memorizzate nel DNA) sarà identico in tutte le copie distribuite al pubblico. Ogni lettore potrà tuttavia interpretare la trama in modo leggermente diverso, provare emozioni diverse e attendersi sviluppi diversi man mano che affronta i vari capitoli. Analogamente l’epigenetica permette interpretazioni diverse di un modello fisso (il libro o il codice genetico) e può dare luogo a diverse letture, a seconda delle condizioni variabili con cui il modello viene interrogato”
Thomas Jenuwein

L’epigenetica è quella branca della biologia che studia le attività di REGOLAZIONE DEI GENI attraverso dei processi chimico/fisici che non determinano cambiamenti nella sequenza del DNA, ma possono influire direttamente sull’espressione fenotipica dell’individuo.(1)

In generale possiamo dire che l’epigenetica indica un determinato assetto dell’espressione genica che condiziona l’insieme delle attività della cellula in risposta agli stimoli ambientali, e rappresenta un cambiamento che può essere fisiologico o patologico, trasmissibile e reversibile.

Quasi ogni aspetto della vita cellulare è influenzato dall’epigenetica e, per questo è uno dei più importanti campi della biologia moderna.

L’epigenetica mostra infatti che non trasmettiamo solo i nostri geni, ma anche i modi in cui essi saranno espressi e che questa espressione è influenzata dalla interazione con il proprio ambiente di vita.

I cambiamenti della regolazione epigenetica possono essere mediati e modificati da fattori diversi sia esterni, quali ad esempio le tossicità ambientali, gli stili di vita, le abitudini alimentari, esperienze traumatiche ripetute, sia interne al soggetto come ad esempio gli stati infiammatori, l’età, il genere, etc.

Il fenomeno maggiormente studiato di regolazione epigenetica è la METILAZIONE del DNA, la cui funzione principale è la regolazione dell’espressione genica. Essa ha un importante ruolo durante la differenziazione cellulare e nelle fasi dello sviluppo embrionale, accendendo o spegnendo i geni secondo un preciso programma spazio-temporale.

La Metilazione del DNA interviene anche nell’imprinting genetico, in cui durante la formazione dei gameti, viene modificato il livello di espressione di un gene o di un cromosoma. I profili di metilazione del DNA sono variabili nel tempo e possono essere reversibili.

Nell’uomo, le modificazioni epigenetiche in risposta ad esperienze traumatiche ripetute sono oggi ampiamente studiate, e forniscono nuovi e preziosi indizi sui processi patofisiologici del disturbo psichico trauma e stress correlato (Klengel T, et al., Neuropharmacology. 2014 May;80:115-3). Tra i marcatori epigenetici, la metilazione del DNA attira particolarmente le attenzioni di ricercatori e clinici proprio per la sua caratteristica plasticità, che la rende un buon substrato per interventi farmacologici, dietetici e psicoterapeutici, in grado di rinvertire i profili dannosi per la salute fisica e psicologica del soggetto.

Le recenti scoperte dell’epigenetica stanno rivoluzionando il modo in cui guardiamo alla trasmissione della sofferenza e della resilienza attraverso le generazioni. I figli erediterebbero, quindi, non solo il nostro corredo genetico (immodificabile se non per mutazioni casuali) ma anche quanto abbiamo appreso dall’esperienza circa il modo di utilizzarlo.

Il messaggio positivo dell’epigenetica è proprio il fatto che non tutto è scritto nel DNA e migliorare la qualità dell’ambiente di vita attraverso la cura, lo stile di vita, l'alimentazione, significa “aiutare” i geni a lavorare per il meglio e al servizio dell’individuo.

In questa prospettiva, le ricadute nella clinica psicoterapeutica sono rivoluzionarie e in gran parte da esplorare:

– In che modo la psicoterapia può incidere sulla trasmissione psicobiologica della sofferenza e della resilienza attraverso le generazioni?

– Per comprendere la biografia individuale è importante considerare anche i traumi sociali delle generazioni precedenti?

Questi e altri interrogativi conducono alla conoscenza dell’essere umano non più chiuso in un sistema geneticamente determinato alla nascita, ma dinamicamente aperto e in continua interazione con il proprio ambiente di vita.

Scoprire i meccanismi di come questa influenza reciproca avvenga è una sfida che muove la nuova ricerca nel campo delle scienze psicobiologiche, ambientali e sociali.


1.Il fenotipo è “l’insieme delle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo determinate dall’interazione fra la sua costituzione genetica e l’ambiente…esso comprende quindi tutti i prodotti o tutte le manifestazioni dei geni di un essere vivente quali, la sequenza amminoacidica delle sue proteine, l’attività dei suoi enzimi, la sua morfologia e il suo comportamento.” Enciclopedia Treccani
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    Paola Foggetti
  • 11 ott 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 15 ott 2022


Immaginare è una facoltà umana, permette di creare, trasformare, sviluppare e anche deformare immagini mentali che, uscendo fuori dalle regole già note e prestabilite, apre la mente ad altre possibilità.

Si può immaginare per sognare mondi diversi, per creare soluzioni possibili … L’immaginazione è, da sempre, la guida nelle grandi scoperte, nelle arti, nella poesia, nella lirica romantica, ma anche nella vita quotidiana.

Immaginare è, quindi, una funzione evolutiva che promuove adattamento e sviluppa la creatività in diversi ambiti dell’esistenza umana.

E’ un fenomeno neuropsicofisiologico strettamente connesso ai processi di memoria a breve e lungo termine e condizionato dalla propria cultura.

Immaginazione e memoria sono parti integranti l’una dell’altra. Pensiamo alla memoria come a un processo attivo e dinamico che riprende forma nel momento stesso in cui ricordiamo qualcosa. Anche quando rievochiamo i sogni, questi non sono mai esattamente come nel momento in cui li abbiamo sognati.

Noi crediamo di ricordare chiaramente ma le neuroscienze dimostrano che la nostra memoria è parziale e imperfetta.

Memoria e immaginazione hanno in comune la rappresentazione dello stimolo (visivo, uditivo, tattile, etc.), come nella percezione; in entrambi i casi simulano qualcosa, ricreando, nel momento presente, nuovi contesti.


Le Scienze psicologiche e neuropsicologiche studiano da decenni il rapporto tra percezione e immaginazione, alcuni studi hanno dimostrato che il contenuto della percezione visiva (la rappresentazione di immagini reali), sono decodificate dall’attività della corteccia visiva.

Questi dati confermerebbero la tesi secondo la quale esisterebbero stretti legami tra l’attività dei recettori sensoriali nella percezione visiva e l’immaginazione. Ma il fenomeno della visione reale o immaginaria è un processo che ha ulteriori connesioni.


Ma perché creiamo immagini? Qual è il loro scopo?

Vittorio Gallese in un recente articolo: "The Problem of images: a vew from the brain-body" su Phenomenology and Mind, 2018, approfondisce questo affascinante mistero.

Recenti ricerche neuroscientifiche, spiega Gallese, hanno cambiato le conoscenze sui meccanismi della percezione, dell'azione, della cognizione. La ricerca continua a individuare i meccanismi delle molteplici relazioni che intercorrono tra questi diversi sistemi e funzioni. Dopo le prime scoperte dei neuroni specchio (Gallese, Rizzolatti), i ricercatori italiani, propongono un nuovo modello psiconeurofisiologico della percezione e delle funzioni cognitive, che chiamano "simulazione incarnata", che rivela la relazione costitutiva tra cervello-corpo e la ricezione di espressioni creative umane.

La formazione di immagini e il loro sviluppo rimanda immediatamente all'esperienza estetica dell'arte.

Si espande da alcuni anni una nuova branca della ricerca:l'estetica sperimentale, facendo inorridire alcuni artisti e studiosi umanistici.

Come spiega anche Gallese, nel suo articolo, l'estetica sperimentale

studia i correlati fisiologici dell'esperienza estetica durante la produzione e la fruizione dell'opera artistica.

La percezione umana, in senso lato, dovrebbe sempre essere compresa come una forma naturale di esperienza relazionale, cioè in continua connessione con i diversi contesti, personali, ambientali, interpersonali, in cui gli oggetti del mondo e gli umani che lo abitano si influenzano a vicenda. Questo accade anche nella produzione e fruizione dell'arte.

L'immaginazione, come forma percettiva molto simile alla visione oggettiva, ingloba tutto il mondo intersoggettivo.

In questa direzione, il primo importante contributo della neuroscienza al problema delle immagini, è una nuova nozione di percezione visiva.

La neuroscienza dimostra che la visione è multimodale (così come altri canali sensoriali), comprende l'attivazione di reti cerebrali motorie, somatosensoriali ed emotive.

I motoneuroni, non solo causano movimenti e azioni, ma rispondono anche agli stimoli visivi, tattili e uditivi, in relazione con il movimento del corpo nello spazio, mappando gli oggetti che occupano quello spazio e così anche i movimenti e le azioni degli altri.

Essere umani significa non solo sperimentare la realtà fisica, ma anche concepire mondi possibili, ovvero immaginarli.

La neuroscienza ci permette di capire come la linea tra ciò che chiamiamo realtà, i mondi immaginari e l'immaginario di azione sono molto meno nitidi e chiari di quanto si possa pensare.

In effetti, sperimentare un'emozione e immaginarla sono entrambe sostenute dall'attivazione di circuiti cerebrali parzialmente identici, sebbene collegati in modo diverso, quando sono coinvolti in queste diverse situazioni cognitive e fenomeniche. Allo stesso modo, vedere qualcosa e immaginarlo, agire e immaginare di agire, coinvolge l'attivazione di circuiti cerebrali parzialmente comuni.

Un recente studio EEG ad alta densità ha mostrato che i circuiti cerebrali che inibiscono l'esecuzione dell'azione sono in parte gli stessi di quelli che ci permettono di immaginare di agire (Angelini et al ., 2015).

L'espressione creativa, attraverso la creazione di immagini, è legata al corpo non solo perché il corpo è lo strumento di creazione dell'immagine, ma anche perché il corpo è il mezzo principale che consente l'esperienza di immagini create dall'uomo.

In conclusione, le neuroscienze contemporanee mostrano che ciò che vediamo non è la semplice registrazione "visiva" nel nostro cervello di ciò che sta di fronte ai nostri occhi, ma il risultato di una costruzione complessa, il cui risultato è il frutto del contributo fondamentale del nostro corpo con le sue potenzialità motorie, i nostri sensi e le nostre emozioni, la nostra immaginazione e i nostri ricordi. La visione è un'esperienza complessa, intrinsecamente sinestetica, cioè fatta di attributi che superano largamente la mera trasposizione in coordinate visive di ciò che sperimentiamo ogni volta che posiamo gli occhi su qualcosa. L'espressione "posa degli occhi" tradisce infatti la qualità tattile della visione: i nostri occhi non sono solo strumenti ottici, ma sono anche una "mano" che tocca ed esplora il visibile, trasformandolo in qualcosa visto da qualcuno. L'espressione creativa e ciò che ora designiamo come arte sono tra le espressioni fondamentali della nostra specie.


PhMacro, opera "Le stanze dell'immaginario" (particolari), Serena Giorgi, (2018)



  • Immagine del redattore: Paola Foggetti
    Paola Foggetti
  • 27 ago 2018
  • Tempo di lettura: 2 min

"Mentre cammini alza lo sguardo e osserva quello che vedi intorno a te: persone, case, palazzi, alberi, animali ...

poni attenzione ai colori e prova a ricordarli

Appunta tutto quello che vedi, forse scoprirai qualcosa "

"E se non vedo nulla?"

"Allora inventa"

...

L'indicazione di compiere dei movimenti del corpo, e nello specifico, di riattivare la motricità oculare, può favorire, in persone che soffrono di una profonda tristezza, sono abuliche, o sono scoraggiate, la comparsa di pensieri positivi, aperti alla speranza di una motivazione personale.

Tuttavia non è così semplice, i meccanismi che ne sono alla base possono essere letti sul piano neuropsicofisiologico e secondo la teoria dei sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, 1991-2017).

Lo sguardo è il primo processo cognitivo ed emozionale (Ruggieri, 1987-2013), e già nella prima infanzia rappresenta un pattern mimico-espressivo attraverso il quale il bambino si pone nell'interazione con l'altro e con l'ambiente (Aringolo, Foggetti 2009).

Da un punto di vista psicofisiologico (Ruggieri, 1987-2013), la motilità dello sguardo coinvolge tutta la muscolatura fronto-oculare e peri-oculare e il conseguente orientamento dello sguardo e la "messa a fuoco" indicano diverse modalità attentive: in uno sguardo "rilassato" l'attenzione è fluttuante, lo sguardo "perso" può indicare un'assenza parziale di attenzione, o ancora in uno sguardo "fisso" l'attenzione è focalizzata verso contenuti interni o esterni, ma in questo caso i pensieri e le immagini sono fortemente selettivi e non permettono di notare altro, e così via.

Una condizione psicopatologica la possiamo osservare quando tutte le dimensioni attentive, in un tempo sufficientemente lungo, risultano iper o ipoattivate, in modo da "cristallizzare" la visione che abbiamo di noi stessi e del mondo.

Per esempio, nella sofferenza depressiva, propriamente detta, talvolta la persona ha grandi difficoltà di movimento, lo sguardo è "spento", senza nessun accenno di ricerca visiva ed i pensieri rimangono cristallizzati in un aurea negativa. E' forte il senso di sconfitta, di incapacità personali, e domina il senso di sottomissione nei confronti delle negatività delle vita, quindi senza speranza per il futuro. Lo sguardo delle persone depresse è focalizzato verso i propri contenuti interni, che sono spesso di fallimento, di perdita, di deprivazione affettiva e di abbandoni.

In un approccio integrato mente corpo, mobilitare lo sguardo verso un presente osservabile e desiderabile può rappresentare un progetto psicoterapeutico da percorrere insieme.

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