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    Paola Foggetti
  • 29 dic 2022
  • Tempo di lettura: 9 min

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Arte psicologia e mito

a cura di Paola Foggetti

“Les possibilités. Labirinti mentali.”

Due artisti, Serena Giorgi e Giulio Perfetti, ci raccontano la loro ricerca interiore, le loro possibilités, attraverso un progetto artistico comune. Le opere narrano del viaggio intrapreso esplorando il luogo mitico e misterioso del labirinto, metafora della condizione umana.

Gli artisti esprimono i loro labirinti mentali attraverso tre dimensioni interagenti, tre possibilités: 1) la ricerca interiore 2) l’esplorazione e la scelta; 3) il deserto.

I riferimenti alle forme labirintiche si perdono “nella notte dei tempi”, hanno accompagnato, da sempre, la storia dell’uomo, sono presenti in tutte le culture a partire dai graffiti preistorici, nei mandala, in alcune danze rituali, nei testi alchemici. Il labirinto più famoso è quello di Cnosso a Creta, ma forme labirintiche le ritroviamo anche nei pavimenti delle cattedrali cristiane, nella letteratura simbolica ed emblematica del medioevo fino all’età moderna.

Entrare in un labirinto è facile ma, per uscirne e compiere la ri-nascita, è indispensabile fermarsi e saper stare. Il sapere di non essere soli (al mondo) facilita le scelte da compiere durante il percorso, permette anche l’esplorazione libera del labirinto.

Naturalmente e spontaneamente Serena e Giorgio intraprendono questo viaggio non in solitudine, ma insieme. Questa scelta è la loro forza, il loro filo di Arianna. Entrare, scoprire e rappresentare i propri meandri della psiche attraverso un confronto, una condivisione di intenti.

Serena Giorgi vive e lavora a Milano. Ha sviluppato tutta la sua formazione professionale nell'ambito dello studio e della pratica delle arti figurative. Si diploma all'Accademia di Belle Arti di Firenze e approfondisce la sua formazione sull'acquarello e l’acrilico con alcuni grandi maestri dell'illustrazione europea come Stephan Zavrel e Kveta Packowska. Oggi il suo lavoro è una pratica quotidiana intensa e totalizzante. Vecchie carte, disegni, fogli dipinti, pagine di diario, spaghi e fotografie, tutto viene raccolto con metodo artigianale, in un processo rispettoso e creativo. La sua poetica nasce letteralmente da questa capacità di “fare” - poiéin - ossia creare, comporre, generare.


Giulio Perfetti si forma presso la Scuola d’Arte di Macerata. Si muove tra le grandi lezioni dell’arte moderna per passare alle suggestioni di quella contemporanea. Sviluppa la sua ricerca artistica con un continuo bisogno di sperimentare la materia e le tecniche più attuali. La sua pittura tende alla scrittura e ogni intervento è un’espressione linguistica che si sviluppa attraverso un cammino parallelo a quello della poesia visiva. Si avvale di una diversità di linguaggi che stimolano lo spettatore ad interagire e conversare con l’opera stessa.


Paola: Come è nata l'idea di questo Progetto?


Serena: Questo progetto è nato per caso, come tutte le cose belle che nascono per caso.

Sono sempre stata attratta dal labirinto e quest'anno ho deciso di affrontarlo come tema nel mio corso di pittura. Il labirinto è un luogo letterario, un mito dell'antichità, è la metafora della condizione umana dunque non necessariamente un edificio chiuso. La ricerca e lo studio successivo mi hanno preso tantissimo: è stato inevitabile parlarne con Giulio, amico e artista che stimo moltissimo. Lui si è lasciato trasportare dal mio entusiasmo e a sua volta anche lui si è entusiasmato. Da quel momento è stato tra noi un continuo dialogo.


Giulio: Si, il progetto è nato dalla conoscenza con Serena. Dal momento in cui siamo entrati in relazione parlando del nostro lavoro, abbiamo trovato un interesse reciproco ed è sorta spontanea l'idea di affrontare un progetto di ricerca comune. Il tema del labirinto è stato suggerito da Serena, io l’ho condiviso appieno. Non è la prima volta che affronto insieme ad un altro artista un lavoro che possa contaminare le visioni e dare una lettura diversa e più ampia alle mie opere.


Paola: Avete diviso il lavoro in più parti …


Serena: È stato necessario dividerlo in più parti, o meglio in tre, ma solo per facilitarne la lettura, in realtà tutto viaggia perfettamente insieme.

La prima parte: un percorso interiore, come condizione umana. La facilità a entrare e la difficoltà a uscire. E poi lo spazio intermedio (il percorso) dove si vaga, senza ben sapere dove si sta andando e perché, e cosa si incontrerà. Una ricerca interiore, il nostro essere così complesso, così semplice, così unico: noi. A ciascuno il suo labirinto.


Giulio: viene rappresentata la condizione umana e cosmica. E’ lo studio della propria interiorità che spesso si presenta come un labirinto inestricabile, un percorso tortuoso di sentimenti ed emozioni. “Sono cosciente del tempo che passa, posso ricordare il passato ed immaginare il futuro, sono consapevole della mia mortalità ed al tempo stesso libero di andare avanti, fermarmi, ritornare o interrompere l'esistenza. Quale è la mia posizione nel mondo? Perché sono qui? Dove andrò? Mi guardo dentro avendo la sensazione che la complessità della lettura sia come un labirinto senza uscita”


Serena: La seconda parte: i miei labirinti, è la rappresentazione grafica, pittorica, la nostra interpretazione di questo luogo, con mura o senza. Il labirinto ha avuto una storia metamorfica, a volte bidimensionale, a volte tridimensionale. Noi rappresenteremo la nostra visione


Giulio: la seconda parte è, quindi anche l'arte di smarrirci e godere di questo. Partendo da uno studio su labirinti inventati si rivela la parte ludica, il piacere di perdersi nella ricerca artistica attraverso la pittura, il disegno, la scultura e l'installazione la nostra visione del labirinto. La ricerca effettuata singolarmente ed insieme durante questo percorso è accompagnata da una documentazione fotografica oltre che da testi e video.

Paola: e poi c’è la terza parte


Serena: Si il deserto. Questo è un tema che per adesso sto affrontando solo io, ed è la parte che mi piace di più. La lettura di Borges mi ha condizionato: il più grande labirinto del mondo è il deserto, dove non ci sono muri che impediscono il cammino, né scale da salire e porte da forzare. Nell'immenso ci si perde davvero.

Paola: Straordinario Borges! Sono vastissimi i campi della cultura moderna in cui Borges ha lasciato la sua eredità, molti artisti e scrittori si sono ispirati alle sue opere: Eco, Calvino, Sciascia, Soriano, Cortazar, Zivkovic … anche voi ne siete rimasti affascinati.

Giulio: E’ questa, forse, la più bella delle possibilità rappresentate dal labirinto. Uno spazio immenso concepito senza strade, né pareti o direzioni. Io e lo spazio cosmico. Provo a descrivere le mie sensazioni attraverso le emozioni dell'arte ricercando un equilibrio interiore che mi faccia star bene, come un’autoterapia per esorcizzare la morte, la fine del percorso.


Paola: A proposito della complessità umana e della ricerca interiore che conduce ed esprime questo progetto artistico, state rappresentando dimensioni fondamentali dell’esistenza e della condizione umana: lo spazio, il tempo, i confini, la percezione, muoversi in più direzioni fino a perdersi, ritrovarsi, tornare indietro, oppure essere obbligati a seguire una sola via.

Nella prima parte, entriamo nel labirinto mitico, una sola via di uscita, l’unica possibile. Non c’è libero arbitrio, il percorso è obbligato. Quali stati d’animo hanno accompagnato questa dimensione?


Serena: Il labirinto mitico, quello classico di Cnosso, è universale e univiario. Il percorso è sì obbligato ma allo stesso tempo rappresenta una struttura sicura, perché raggiunto il centro con tutte le sue difficoltà non si può che tornare all'uscita. Ecco il senso del filo d'Arianna che permette di ritrovare il cammino e di non imboccarne un altro. Le emozioni sono state tante e forte è stato il desiderio di arrivare al centro e vivere intensamente questo momento. È il raggiungimento della salvezza: il traguardo è quasi una sorta di purificazione. Ma lungo il tragitto ci siamo indagati più che preoccupati di non arrivare.

Giulio: Ci sentiamo condizionati dal luogo e dal tempo della nostra limitata esistenza. Il percorso è obbligato dalla nostra mente, influenzata da fattori esterni che disegnano architetture e indicano strade da percorrere, a volte a senso unico senza via d’uscita. Mappe incomprensibili con segnali divini per salvare l’anima, una corsa per arrivare puri verso la fine. La via che sembra più facile non sempre è quella giusta. Si deve avere pazienza e di fronte ai bivi, quando non si è in grado di scegliere, si è costretti a rischiare, bisogna essere pronti a tornare indietro. Tentare per uscire.


Paola: Nella seconda parte del lavoro ci inoltriamo nei vostri labirinti, dal mio punto di vista, questa parte è quella che preferisco. Forse non è un caso che, idealmente, si posizioni al centro di questo progetto. E’ il perno che tiene il tutto, è la visione e il significato archetipico del Complesso dell’Io di Jung. E’ il centro della personalità cosciente. Ma contiene anche aspetti inconsci. Insomma, permette di compiere delle scelte e di tornare indietro. La dimensione in cui è possibile esplorare, è la parte giocosa e di piacere. Ma rappresenta anche quella parte di consapevolezza delle proprie fragilità e della propria forza. Presuppone una base di sicurezza interiore, che stimola la curiosità individuale, permette di lasciarsi andare senza avere troppo timore. I confini rigidi aprono lo spazio a confini flessibili, si aprono degli spiragli, si esplora il mondo, individuale e interpersonale.

In psicologia, questi temi rappresentano il modo di ognuno di noi di essere al mondo, definiscono il proprio spazio fisico e psicologico, la propria identità. Se osserviamo una mappa cerebrale mentre una persona si muove ed esplora il mondo notiamo delle connessioni infinite bellissime. Nella teoria dei sistemi multidimensionali, questi contesti sono fondamentali anche per comprendere come ognuno di noi si relaziona con l’altro e con il proprio ambiente culturale.


Giulio: In questa parte del progetto il tentativo è proprio quello di percorrere strade diverse senza avere la certezza che siano le uniche vie possibili. Ci sono alternative, ci sono altre possibilità. Scoprire tesori e goderli pienamente. Imparare a smarrirsi e scorgere nuovi orizzonti percorribili.


Serena: mi viene in mente la frase di Italo Calvino, in Le Città invisibili: “un giorno camminavo tra angoli di case tutte uguali: mi ero perso” …


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Paola: E quindi, l’ultima parte: il Deserto. Come darvi torto? Il fascino del deserto rimanda alla grandiosità, all’immensità che è irraggiungibile alla mente umana, al mistero dell’indefinibile, pone sfide impossibili. Ad un illusorio contatto con l’universo. Perché il vero contatto ha bisogno di confini. Il deserto è allo stesso tempo il labirinto più affascinante ma anche quello più pericoloso, “nell’immenso ci si perde d’avvero”, sono d’accordo con il pensiero di Borges.

In psicofisiologia la percezione di non avere confini porta alla confusione mentale, alla paura della dissoluzione, della disintegrazione del corpo. Abbiamo bisogno di confini per vivere, questo è il limite, ma i confini rappresentano anche la forza e la potenza degli esseri viventi, che permettono le connessioni dinamiche tra i diversi contesti: biologici, relazionali, culturali. La condivisione (spazi che si uniscono) permette l’integrazione e sviluppa l’evoluzione. E’ quello che state facendo voi, insieme, lavorando a questo progetto.

Serena: “coloro che si sono spinti troppo lontano dal loro sé primitivo devono ritornare sui loro passi per ritrovarlo” è una citazione di Anais Nin, una scrittrice che amo molto, credo sia in linea su quanto stiamo dicendo.


Paola: per Borges e Ariosto, nell’affrontare i labirinti, prevale lo stupore (perplessità la chiama, Borges, “l’unica emozione che non si dimentica”). E per voi, prevale un’emozione?


Serena: solo stupore … affronto i nuovi percorsi sempre con grande trasporto e entusiasmo, forse la paura e un po’ di tristezza arrivano, quando ho raggiunto il traguardo (e ora? cosa faccio?)


Giulio: stupore! paura no … certo, incontrare “la Minotaura” mette paura! (sorride), ma siamo “nella stessa barca”, in due è meglio che one!!!


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Paola: Le vostre “contaminazioni”, lo scambio quotidiano che avete, in che modo arricchiscono questo progetto artistico?

Serena: Lo scambio, le contaminazioni sono fondamentali. Sono una donna molto curiosa e sempre piena di domande, mi indago e amo confrontarmi con gli altri. Ma credo che chiunque al mondo voglia "dialogare" con il prossimo. Non esiste alcuna situazione che possa reprimere questa urgenza. Con Giulio è stato facile: è un continuo dare e ricevere. Io più espansiva, lui più discreto e riservato e soprattutto sempre disponibile ad ascoltare.


Giulio: L’arricchimento è continuo, io non finisco mai di sorprendermi e il mio obiettivo è quello di cercare la meraviglia in ogni dove. Serena mi sta aprendo le porte del suo labirinto ed è un piacere percorrere insieme il viaggio, che è sempre un’occasione straordinaria di scoperta di sé, degli altri, del mondo. Ogni colore è un viaggio.

Paola: Durante la vostra ricerca artistica, quanto e in che modo, secondo voi, le diverse culture cambiano l’architettura dei labirinti?


Serena: Il labirinto subisce nel tempo un'evoluzione o, forse direi, molti cambiamenti. Ho analizzato la sua storia attraverso i secoli: i cambiamenti culturali, la religione. Se nella Grecia classica esso era concepito come viaggio che conduce verso il centro (la speranza di una rinascita), nel medioevo perde invece la sua carica spirituale e volge a significati profani e laici. E poi nel 500 avrà spazio nel clima edonistico e gaudente della corte. Insomma l'idea del labirinto si decanta, appare desacralizzata, acquista continui significati, è un percorso senza fine.

Giulio: I labirinti, dalle incisioni rupestri agli intarsi sulle pavimentazioni dei luoghi di culto, dai giardini delle ville alle raffigurazioni degli artisti contemporanei, sono stati rappresentati come una linea bidimensionale o tridimensionale continua ed attorcigliata su se stessa. Lo spazio vuoto è stato lasciato a contrassegnare una via d’ingresso e una di uscita per il raggiungimento della salvezza. Ora potremo immaginare di rappresentarlo come una rete virtuale dalle interconnessioni multiple, collegate e infinite. Concettualmente è una visione illimitata senza muri, senza fine, che ci porta diretti verso la conoscenza e l’incontro tra culture, tra modi di vedere di comunicare.


Paola: Cosa avete scoperto in questo viaggio? Vi siete incontrati!

Serena: Si, ci siamo incontrati. Il nostro labirinto artistico non è stato un intrico in cui perdersi, bensì un percorso classicamente accogliente in cui trovarsi e scoprire tante cose ben più benevole del Minotauro: idee, entusiasmo, desiderio di creare. Una ricerca interiore e artistica, uno scambio di infinite gradazioni di colore


Giulio: E’ stato inevitabile incontrarci perché abbiamo condiviso gli stessi interessi ed affinato le nostre sensibilità. Andando avanti ho rafforzato la mia posizione nel mondo confermando che i confini non si vedono, ma ci insegnano che esistono. Sono nella mente di alcune persone.

Paola: Quando potremmo ammirare il vostro progetto? Quando la prossima mostra?

Serena: Il nostro progetto avrà come prima tappa il mio paese d'origine: Cecina (Li) nello spazio espositivo del Comune. LES POSSIBILITÉS labirinti mentali 6/15 luglio 2018


Giulio: Il mio augurio è quello di proseguire il cammino all’interno del labirinto, trovando sempre nuovi orizzonti di incontro e di conoscenza. Sarà un progetto aperto a chi vorrà condividere con noi la ricerca dell’essere.

Paola: Grazie … infinite … è stato un vero piacere

Serena e Giulio: grazie a voi … apriamo “le porte” e incontriamoci



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    Paola Foggetti
  • 30 ago 2022
  • Tempo di lettura: 5 min

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La dimensione gruppale in psicoterapia, in riabilitazione, nei contesti di sostegno sociale permette, a ogni membro del gruppo, di confrontarsi con la propria memoria storica: la propria dimensione gruppale.

Il Sé gruppale nasce durante le prime esperienze all'interno del gruppo primario (quelle che Bion chiama prototipiche), la famiglia e che si estende anche durante le esperienze del gruppo dei pari (scuola materna, scuola secondaria e gruppi sociali successivi).

L'insieme delle relazioni gruppali sperimentate durante l'età evolutiva, sommate alle relazioni primarie diadiche costruiscono il senso del sé e di essere al mondo, i Modelli Operativi Interni (MOI) che potremmo definire "sistemici".

Ma la nostra identità non finisce qui.

La matrice intrinsecamente sistemica e relazionale dell'essere umano è resa multipla nelle dinamiche di gruppo, indipendentemente dalla sua forma, in cui, sia a livello conscio che inconscio si inseriscono e prendono forma gli aspetti tipicamente culturali, politici, religiosi.

In questo processo dinamico la cultura entra nella rappresentazione del Sé sociale.

Le forme del gruppo.

Esistono e si possono formare diverse tipologie di gruppi: gruppi psicoterapeutici, di sostegno sociale, di comunità, di lavoro, di supervisione, etc.. La mia lunga esperienza clinica con i gruppi mi ha permesso di esplorare e studiare diverse forme di gruppo, da cui ho tratto molti insegnamenti e arricchimento personale.

In questo articolo mi soffermo sul gruppo terapeutico.

Secondo il mio modello multidimensionale di psicoterapia che integra diversi approcci psicoterapeutici: cognitivo evoluzionista, psicodinamico, cognitivo comportamentale e biopsicosociale in ottica Pnei (psiconeuroendocrinoimmunitario), la psicoterapia di gruppo è concepita in un nuovo sistema in itinere, costituito dall'insieme delle persone e dalle relazioni che fra queste si vengono a creare.

In questa visione multisistemica, nel gruppo di psicoterapia convivono unità e molteplicità interagenti, e quindi diversi livelli di complessità: gli individui ciascuno con le proprie caratteristiche, la propria storia personale, la propria cultura, e la dimensione collettiva (gruppo come fenomeno) che agisce, si muove e si identifica come insieme.

Inevitabilmente ogni membro del gruppo, in modo consapevole o inconscio, porta se stesso, la propria esperienza di vita, i miti costruiti nel tempo, i propri schemi relazionali, le proprie emozioni, credenze, e tutte queste dimensioni personali si intrecciano, a vari livelli, con quelle di tutti gli altri membri, nasce così un nuovo sistema gruppo.

Anche nel gruppo terapeutico, come accade nel gruppo familiare, si vengono a costituire regole, si creano ruoli e funzioni, sottosistemi e alleanze. E quindi anche il gruppo di psicoterapia costruisce una propria identità, la propria storia che diviene il nuovo contesto di crescita personale.

Nel gruppo terapeutico è possibile rivedere, rileggere, accettare e modificare se necessario, i propri schemi relazionali disfunzionali, attraverso un lavoro consapevole e non giudicante con la guida del terapeuta.

Attraverso un lavoro gruppale si forma la storia del gruppo, essa si costruisce nel momento stesso in cui inizia la terapia, quando i contesti individuali si intrecciano e si contaminano.

Rispetto al lavoro individuale, in psicoterapia di gruppo si pone maggiormente l'accento sulle dinamiche relazionali che avvengono in tempo reale. Tutto assume un altro significato se abbiamo la possibilità di comprendere, chiarire e riflettere su ciò che accade nel momento presente nei contesti interpersonali. E quindi il tempo storico viene a coincidere con il tempo terapeutico.

Quasi sempre scelgo di formare gruppi aperti, perché credo che abbiano un potente valore terapeutico. I gruppi aperti di psicoterapia sono quelli in cui il terapeuta, sceglie e informa fin dall'inizio i partecipanti, che nel gruppo potrà entrare un altro membro, previo preavviso e condivisione della scelta del terapeuta. Questa "regola" permette di lavorare sul tema del confine del gruppo, altro aspetto fondamentale che fa riferimento al gruppo primario.

Il contesto gruppale attiva diversi sistemi motivazionali su base innata, in primis il sistema agonistico e di attaccamento e il sistema affiliativo. L'obiettivo è andare verso una coesione gruppale, in cui l'intimità del gruppo facilita la crescita individuale.

Il tema dei confini si inserisce in questo momento cosi delicato in cui, percepito un senso di appartenenza, di sicurezza, in cui potersi esprimere senza paura, l'inserimento di un nuovo elemento può essere vissuto come una minaccia per il sé ma anche per il gruppo stesso.

Ma accettare che il proprio spazio sicuro abbia dei confini flessibili e non rigidi, significa sostanzialmente accettare e sostenere la vera apertura e condivisione con il mondo, significa aver acquisito maggior sicurezza interna. E' il cammino terapeutico di un gruppo aperto.

La flessibilità dei confini vale anche per i membri del gruppo che decidono di interrompere la psicoterapia. E' importante comprendere che ogni movimento di un sistema disorganizza il sistema stesso e che esso è quindi chiamato a riorganizzarsi. Ma questa è la vita e questa è la nostra ricchezza, se tutto fosse sempre fermo non avremmo possibilità di evoluzione.

I processi sopra esposti, sono attuati seguendo delle regole fondamentali che il terapeuta di gruppo assolve con molta cura.

La psicoterapia di gruppo si muove seguendo regole esplicite e implicite che definiscono il contesto. Alcune di queste regole vengono comunicate in prima seduta dal terapeuta, altre, per lo più implicite, vengono create nel tempo dal gruppo stesso e possono essere meta-comunicate o modificate per adattarsi all'ulteriore evoluzione del gruppo.

Una volta raggiunta la coesione del gruppo e accettata la flessibilità dei suoi confini, ogni

partecipante sente di muoversi in sicurezza per esplorare i propri conflitti, le paure, gli abbandoni, rimettere in discussione i propri schemi mentali.

Il gruppo diviene così quel campo relazionale in cui ogni partecipante può riprendere in mano la propria vita, fare le proprie scelte, confrontarsi sui propri dubbi e fragilità.

Il gruppo offre quindi una rete di sicurezza attraverso cui sperimentare scenari esistenziali, anche se dolorosi.

Nei miei gruppi di psicoterapia posso attuare, inoltre, se necessario, tecniche di gestione dello stress, e dello stress post traumatico, come l'EMDR (secondo il protocollo di gruppo), tecniche psico-corporee e la mindfulness.

Molta attenzione la dedico anche all'aspetto psicoeducazionale riguardo alla nutrizione e all'igiene del sonno, mentre ai gruppi già avviati propongo due seminari annuali, di 3 ore ciascuno, da svolgere insieme su temi concordati nelle sessioni di gruppo.

Nei gruppi psicoterapeutici integrati il percorso si orienta verso l'apprendimento di scelte autonome che sono utili nel momento presente, capaci di orientare ogni membro in modo adattivo rispetto all'ambiente in cui è immerso. E dunque, 'idea di Yalom di "ricapitolazione" può essere sostituita dall'idea di rinarrazione, rievocazione, riattivazione. (Giordano e Curino, 2013).

Il focus del processo terapeutico si situa nel qui ed ora del gruppo, anche se si lavora col "materiale" del passato: connettere il passato, il là e allora degli apprendimenti disfunzionali in tutte le loro sfumature, nella scena del presente del gruppo rappresenta il punto massimo di perturbazione delle rigide mappe introiettate nel gruppo primario.

La condivisione affettiva del gruppo permette di sfidare meccanismi di produzione di significato rigidi, indebolire le mappe apprese in famiglia, ed incrementare i gradi di libertà, aumentando il numero di scelte possibili.

Il gruppo diviene così il luogo dove si possono sperimentare sensi di appartenenza diversi rispetto a quelli familiari e si vivono relazioni di conferma di nuove parti di sé.

Nel sistema terapeutico gruppale integrato il terapeuta deve avere la capacità di mantenere un livello di pensiero “mèta” che gli permetta di trovare le connessioni tra le trame delle tante storie e tra i possibili sviluppi dei partecipanti.



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    Paola Foggetti
  • 17 ott 2021
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 19 ott 2021


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Il termine Adattamento in psicologia è fortemente agganciato al concetto di Resilienza, cioè la capacità che ci permette di fronteggiare i momenti difficili della vita, le avversità ambientali, i dolori personali, le malattie, etc. e di riemergere con maggiore forza e conoscenza.

Iniziamo a porci delle domande: perché è importante sapersi adattare alle avversità della vita? Come essere umani siamo predisposti biologicamente a questo? Quali sono i meccanismi che ci permettono l’adattamento? E quando, invece, l’adattamento non è possibile o risulta deficitario? Quanto incide l’ambiente esterno per il nostro adattamento alle avversità? Quali sono i processi fondamentali che ci rendono resilienti? Quali sono i segnali psicobiologici da valutare?

Proviamo a trovare delle risposte partendo dal concetto di RELAZIONE.

La vita è relazione: dal micro al macro organismo e sistema, dal biologico al sociale e viceversa, in continua interazione tra essi; in biologia tra piante e animali, nelle sinapsi chimiche, elettriche ed elettromagnetiche; in psicobiologia, in forma di network complessi tra sistemi e apparati del corpo umano e degli animali; tra gli interi organismi viventi e gli ambienti esterni (climatici, geografici, etc.).

Tutti i sistemi in relazione orientano l’ADATTAMENTO.

Mi piace parlare di Adattamento Evolutivo nell’uomo, quando mi riferisco alla capacità dell’intero organismo di essere “creativo” e rigenerativo, che in ultima analisi, esso correla con la Neuroplasticità cerebrale, ovvero la capacità del nostro cervello di creare o rinnovare cellule e collegamenti neurali.

Sappiamo che anche il nostro DNA può esprimersi in modo plastico, l’epigenetica ce lo mostra: la ricerca mette sempre più in evidenza l’importanza dei fattori epigenetici nel modulare l’attività dei nostri geni e nel modificare l’espressione di alcuni geni.

Un altro concetto importante che ci aiuta a comprendere come ci adattiamo è l’Allostasi.

L’organismo umano non funziona come un mèro “termostato” (Omeostasi), ma risponde in modo variabile, valuta gli stimoli salienti ambientali e modifica i suoi valori fisiologici per il migliore adattamento possibile. Il nostro cervello crea delle previsioni di quanto sta per accadere, sulla base della sua memoria e delle sue aspettative, oltre che dai segnali sensoriali e dai feedback provenienti dalle risposte motorie, neurormonali, etc. (Sterling, 2012, “Allostasis: A model of predictive regulation”, Physiology & Behavior, 106, pp. 5-15).

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Quindi sulla base di queste previsioni il cervello umano analizza le informazioni sensoriali che riceve, elabora simulazioni e predizioni anche sul lungo termine, valuta gli errori e le incongruenze fra sensazioni e predizioni e cerca di minimizzare questi errori sulla base delle energie a disposizione, della memoria e della consapevolezza (Barrett, 2017, “The theory of constructed emotion: an active inference account of interoception and categorization”, Soc Cogn Affect eurosci, 1-23).

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L’organismo umano è dunque, allostatico e la centralina è il cervello: valuta gli stimoli ambientali e modifica i suoi valori fisiologici (mente e corpo), sulla base di: esperienze passate, stato ambientale, alimentazione, caratteristiche personali, etc. (McEwen & Gianaros, 2011, “stress- and Allostasis-Induced Brain Plasticity”, Annual Review of Medicine, 62, pp. 431-45).

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Lo stress, il corpo e la percezione: il carico allostatico.

I segnali che arrivano dal corpo sono fondamentali per calibrare la risposta di stress: tutti i sistemi psicobiologici si attivano e se l’organismo, nella sua totalità mente corpo non riesce ad attuare il riposo e il recupero delle energie, rimane in uno stato di allerta e i sistemi si logorano, fino all’esaurimento delle risorse disponibili per fronteggiare in maniera adattiva le avversità (Payne & Crane-Godreau 2015, “The preparatory set: a novel approach to understanding 64†550 stress, trauma, and the bodymind therapies”, Front Hum Neurosci, 9: 178).

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In altre parole, quando lo sforzo per risolvere “un problema” diviene eccessivo, si entra in uno stato di carico allostatico, si inizia a consumare troppe risorse, l’organismo può diventare: a) troppo sensibile, eccitabile e irritabile, b) troppo poco sensibile o esausto. Come ci mostrano i grafici (McEwen & Gianaros 2011, “stress- and Allostasis- Induced Brain Plasticity”, Annual Review of Medicine, 62, pp. 431-45).

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La resilienza ai tempi del corona virus.

In questa epoca di pandemia mai come ora sono cresciute in modo esponenziale i disturbi psichiatrici e le malattie, nei bambini, negli adolescenti e anche negli adulti. Erano tutti soggetti «fragili»?

Oppure quello che sta accadendo ci impone di riorganizzare in senso psicobiologico «le fondamenta» del nostro sistema Nervoso di Relazione e di Adattamento?

La condizione protratta di continua richiesta di adattamento, non è stata e non è ancora, solo altamente stressante, ma mina le nostre capacità innate di adattamento, che sono quelle che ci permettono di fare dei salti maturativi, ovvero le "buone" relazioni percettivo/affettive organismo ambiente, di cui tutti hanno bisogno per mantenere la salute durante l’arco della vita, mentre i soggetti fragili ne hanno la priorità assoluta.

Essere resilienti, quindi, significa recuperare, stimolare e non perdere queste capacità innate adattative, le quali fanno parte di un processo vitale unitario, quindi in relazione, tra organismo e contesto ambientale opportuno e responsivo.

Per acquisire e sviluppare l’adattamento, in età adulta, divenire consapevoli è il primo passo, ma la consapevolezza non basta se non si tiene conto della «resilienza di base».

Da un punto di vistra psiconeurobiologico abbiamo bisogno di attuare un processo che in psicologia cognitiva è chiamato: Assimilazione, mentre in termini neurobiologici è chiamato: Riorganizzazione neuronale. Quando non abbiamo la possibilità di trovare una soluzione ai nostri problemi di salute, quando non riusciamo a trovare una base sicura a cui attingere e trovare conforto, allora dobbiamo orientarci a capire in quale modo possiamo aiutarci. Talvolta è necessario intervenire sui nostri MOI (Modelli Operativi Interni), gli schemi mentali che contengono credenze emozioni e sensazioni somatiche co-create durante l’età evolutiva, che risultano disfunzionali e insicuri …

Non è cosa da poco. La vera consapevolezza passa attraverso una riscrittura della nostra vita e delle nostre risposte ad essa, e solo allora essa si presenta come un fenomeno resiliente e di adattamento evolutivo.

Da dove iniziare.

Proviamo a riconoscere le nostre emozioni, esse sono il faro, la nostra guida, anche quelle più disturbanti come la paura, la rabbia, la vergogna, il disgusto, la tristezza, la disperazione … Quando siamo confusi e disorientati non è facile… e quindi proviamo ad accogliere le nostre fragilità per ricercare nutrimento. Impariamo a condividere e a chiedere conforto, aiuto a chi è disposto ad ascoltarci, senza giudicare. E quando ci sentiremo più forti, potremo lottare contro le avversità quotidiane e compiere scelte consapevoli che ci orientano a una vita in salute.


foto in copertina Carlo Corti



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