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“…Benedetti sono quelli in cui passione e ragione sono ben mescolati che così essi non sono che flauti che il dito della fortuna possa suonare sul tasto che le piace.” [W. Shakespeare, Amleto, tr.it. A. Serpieri, Milano, Feltrinelli, 1980, atto II, scena 2] Ogni essere umano fin dalla nascita impara a conoscere e poi a rappresentare il proprio “teatro”. La “scena” di quello che siamo si costruisce nell’interazione concreta con l’altro, si organizza nel tempo attraverso il vissuto esperienziale con il mondo e la propria cultura. Nella finzione del teatro e anche nella vita, dietro ogni “verità” c’è un processo immaginativo (Ruggieri, 2001). L’immaginazione - intesa non come fantasia, ma come immagine mentale quale elemento costitutivo dei processi cognitivi - assume un ruolo fondamentale nel costruire l’esperienza di realtà. Noi rappresentiamo quello che riusciamo a immaginare. La mente umana è in continua evoluzione e, potenzialmente, è una mente creativa. Il “teatro interiore” e la visione del mondo sono, quindi, un processo dinamico, immaginativo e rappresentazionale: chi siamo, dove siamo, cosa faremo. Come tutta l’Arte-terapia la Dramma-teatro-terapia e lo Psicodramma stimolano questo processo creativo, evolutivo e trasformativo dell’uomo. Per meglio comprendere la nascita e lo sviluppo dell’uso del Dramma come strumento curativo e di crescita espressiva è importante fare un salto temporale di oltre un secolo fa, anni in cui iniziano i grandi movimenti anticonformisti in campo artistico, politico e sociale. Breve rassegna storica della Prima e Seconda Riforma Teatrale: verso un “Teatro Sociale” e Psicopedagogico. Dalla seconda metà dell’ottocento e per tutto il novecento avviene un processo di forte cambiamento negli ambiti artistici, psicologici e socio-pedagogici. In Germania con I Meininger, si avvia un fenomeno che prende il nome di de-teatralizzazione; la rappresentazione ossessiva per il “vero” che elimina la scenografia e utilizza attori non formati, ma persone che improvvisano se stessi sulla scena con gesti, posture libere e spontanee. In Russia, nei primi del novecento, il grande regista Kostantin S. Stanislawskij (1863-1938), avvia una ricerca sulla figura dell’attore e sul ruolo del conduttore che segna la nascita della regia teatrale e del Teatro d’Avanguardia della prima grande Riforma. Il pensiero e la tecnica sperimentale di Stanislawskij è complessa e articolata, il suo principale intento è di natura pedagogica (Ruggieri, 2001). L’attore fa un lavoro su ste stesso alla ricerca di una rappresentazione il più possibile autentica a partire dalle capacità espressive che devono risultare il più possibile “credibili”. Il sentimento autentico del personaggio è il punto d’arrivo e non di partenza del lavoro, per giungere alla sua completa identificazione con il personaggio (Ruggeri, 2001). L’individuo, attraverso l’azione, può avere la possibilità di esperire il sentimento, non prima. Solo dopo la riproduzione spontanea del gesto, che non deve essere una semplice imitazione meccanica, l’attore può profondamente essere in contatto con il personaggio. Il maestro russo intravede una forte relazione tra queste tre componenti: attività motoria (gesto)-azione-sentimento. Quello che intende sperimentare è che i sentimenti non possono essere rappresentati tout-court, ma essere generati quando l’attore vive o rivive situazioni autentiche attraverso l’azione corporea, immedesimato nel contesto esistenziale del personaggio. Rivivere interiormente la parte presuppone un lavoro costante su se stesso che consente di comunicare all’esterno situazioni interne inafferrabili. Il meccanismo interferente (l’inafferrabilità) a cui si riferisce Stanislawskij è la rigidità posturale dell’individuo, dovuta a tensioni muscolari eccessive, che bloccano, inibiscono i processi interni di immaginazione, quindi, di immedesimazione: “Se i muscoli sono tirati come corde e il corpo è legato, non se ne può far nulla. I muscoli tesi come cavi, i sentimenti come ragnatele. Non si può spezzare un cavo con una ragnatela. […] la base è dunque quella del rilassamento dei muscoli e […] solo dopo vengono gli elementi della personificazione”. In questa direzione, assolutamente innovativa, si articola la dinamica interazione tra il regista conduttore e l’attore che insieme ricercano la verità del testo, attraverso un lavoro sulla espressività delle azioni motorie che producono il gesto epressivo. Le linee del modello Stanislawskij, essenzialmente, sono costituite dalla reviviscenza e dalla personificazione, in cui i processi d’immaginazione, appunto, hanno un ruolo fondamentale, (Ruggieri, 2001). Stanislawkij porta avanti la sua ricerca per molti anni e, nel 1905 affida a Vsevolod Mejerchol’d (1874-1940), suo allievo, la direzione di un teatro sperimentale con il quale rivoluziona l’intero paradigma teatrale: elimina la lettura del testo a tavolino, utilizza altri spazi scenici fuori dal Teatro, va direttamente in scena e sperimenta insieme agli attori, (non provenienti dal Teatro dell’Arte), nuove modalità espressive attraverso le improvvisazioni. Ben presto, però, il maestro russo si accorge che forse i tempi ancora non sono maturi, gli attori stessi hanno difficoltà a staccarsi dai metodi tradizionali di recitazione e Stanislawskij chiude do studio di Mejerchol’d. Tuttavia il lavoro continua e si aprono, poco dopo, altri Studi. Mejerchol’d fortemente condizionato dalle conquiste del teatro simbolista francese applica altre modifiche: rinnova lo spazio scenico includendo gli spettatori, che divengono un elemento co-partecipativo dell’evento teatrale. Antonin Artaud 1896-1948), nel 1920 delinea il suo Teatro della Crudeltà, una vera rivoluzione contro la tradizione occidentale ed esprime un teatro immediato, anticonformista espresso con il “fine di liberare l’inconscio e di sovvertire pensiero e logica”, tentando di avvicinare il teatro alla vita come una forma di riscatto sociale e umano, influenzando profondamente tutta la corrente della Neoavanguardia del teatro degli anni sessanta e settanta. Intanto, durante la seconda guerra mondiale, Bertolt Brecht (1898-1956) lascia la Germania sotto il potere nazista e avvia lo sviluppo della sua Riforma, sociale e politica del teatro che lo consacra come uno dei fondatori del teatro contemporaneo. E’ un tentativo, quello di Brecht, di modificare il tessuto sociale-politico dei suoi tempi che esorta i suoi attori a entrare nel vivere quotidiano, prima di tutto, come uomini ancor prima che attori, proclamando il rifiuto del naturalismo e del teatro borghese. Lo spettatore deve essenzialmente capire e non sentire, contrapponendosi totalmente all’identificazione di Stanislawskij. Attraverso la tecnica dell’estraneazione (Verfremdungseffekt) che propone agli attori, lo spettatore, oltre ad evitare ogni coinvolgimento emotivo, deve essere facilitato a sviluppare un atteggiamento critico e riflessivo sugli eventi rappresentati. Il metodo di Brecht (forma epica che si contrappone alla forma drammatica) è fortemente condizionato da una spinta di rinnovamento politico e istituzionale che il maestro avverte come l’unica condizione si salvezza dell’uomo che deve divenire consapevole del suo stato sociale. Nel panorama internazionale i promotori della seconda riforma sono senza dubbio Julian Back e Judith Malina, fondatori nel 1947 del Living Theatre e non può essere dimenticato Jerzy Grotowsky (1933-1999), nonché Eugenio Barba e Peter Brook. Questi maestri si considerano in continuità con i loro colleghi dei primi decenni del secolo scorso e ripropongono la nuova riforma come per un compimento di un ciclo (Perrelli, 2009). Tutti, a diversi livelli, si confrontano con il grande primo maestro Stanislawskij, che dal 1905 in poi, insieme ad altri, diede vita al “teatro laboratorio”, quel luogo di ricerca nel quale “fosse possibile sperimentare sull’arte di un attore riscattato dalla passività e dalla ruotine della professione, addirittura dall’obbligo stesso della rappresentazione”, (Perrelli, 2009). Grotowsky, più degli altri, cerca di approfondire e ampliare il lavoro di Stanislawskij, di “formulare delle risposte” a quesiti rimasti aperti, un impegno di ricerca che conduce per tutta la vita. Nasce così ciò che Grotowsky definisce il Teatro Povero, un teatro che mette in evidenza essenzialmente il lavoro sull’attore coinvolgendo il pubblico, eliminando ogni mezzo tecnologico e ponendo l’accento sui rapporti umani. Utilizza tecniche psico-corporee: yoga, allenamento biomeccanico di Mejerchol’d che hanno lo scopo di far emergere la psicologia dell’attore durante le rappresentazioni. La memoria dei gesti, la continua ripetizione delle singole azioni vengono elaborate fino al più piccolo dettaglio e - a differenza di Stanislawskij - il lavoro sulle piccole azioni fisiche diviene il metodo che mette in moto la verità dell’attore, affinché si rappresenti una “vita reale” nello spettacolo. Nel laboratori di Grotowsky non vengono recitati i personaggi ma si creano azioni direttamente con i ricordi personali. Il testo teatrale, quando esiste, viene elaborato e rappresentato direttamente dal vissuto personale degli attori. Parallelamente al grande fermento della ricerca in campo teatrale che caratterizza tutta la seconda riforma, si aprono nuovi orizzonti anche nel campo della psicologia sperimentale e della psicoanalisi; si sviluppano le prime forme di cura in psicologia e riabilitazione attraverso l’uso del teatro: nasce lo Psicodramma. Lo Psicodramma E’ una tecnica formalizzata da Jacob Levi Moreno nel 1946 e rappresenta il primo tentativo di usare il teatro e l’attività di gruppo in senso terapeutico. Moreno (1889-1974) medico e filosofo, si forma a Vienna ma esercita per pochi anni la professione di medico. Si occupa dei problemi dell’espressività mediante esperienze di gruppo condotte nei campi di concentramento per prigionieri di guerra. Fonda un teatro sperimentale di recitazione a soggetto, il Teatro della Spontaneità (Steigreftheatre), che gli permette di plasmare il suo modello arteterapeutico. Nella metà del novecento si trasferisce negli Stati Uniti dove fonda un centro di ricerca sull’esperienza psicodrammatica. La tecnica dello Psicodramma si focalizza principalmente sulla spontaneità dell’azione, ovvero sulla libertà con la quale ogni individuo è in grado di assumere il proprio ruolo: unità fondamentale del comportamento umano. Moreno sollecita i membri del gruppo alla spontaneità, ad esprimere l’emotività, l’immaginazione, i propri sogni. Il lavoro consiste nel rappresentare storie, situazioni di vita attuale, passata o sognata, in cui il protagonista racconta se stesso. La tecnica drammatica moreniana ha come primo obiettivo quello di far emergere, nel qui e ora, le sensazioni, le emozioni, gli stati affettivi della vita reale dei partecipanti e intervenire nel momento stesso in cui questi vengono agiti e rappresentati. Lo Psicodramma ha una struttura ben definita e si compone di tre fasi: il riscaldamento, la rappresentazione, la condivisione. Durante il riscaldamento, i partecipanti sono invitati dal conduttore ad esternare quello che desiderano e di cui sono consapevoli in un clima protetto dalla cornice terapeutica privo di giudizi e critiche. Sono utilizzate diverse tecniche di autopercezione corporea e immaginativa guidata allo scopo di favorire condizioni che aiutino ogni membro del gruppo a lasciarsi andare e superare il blocco espressivo di aspetti di sé intimi e preziosi. Quando il gruppo si è riscaldato si passa alla fase successiva della rappresentazione: chi vuole lavorare si propone e il gruppo decide su chi sarà il protagonista. In questa fase un tema/problematica viene espressa in azione fisica e verbale, tutti gli elementi della scena vengono esteriorizzati in forma “vivente” e attiva sotto forma di personaggi e oggetti. Gli altri membri del gruppo fungono da Io Ausiliari rappresentando aspetti diversi del sé, personaggi e oggetti del protagonista così come sono da egli vissuti. Il conduttore in questa fase, come un vero regista, aiuta tutti i soggetti a entrare il più possibile, ad ogni livello, nel “personaggio” conscio e inconscio da rappresentare. Le tecniche utilizzate sono diverse e vengono scelte dal conduttore con attenzione e creatività a seconda della necessità di ogni singolo membro del gruppo. Una volta conclusa la rappresentazione si giunge alla fase della condivisione che rappresenta il momento del confronto di gruppo sui vissuti personali durante il lavoro svolto. Moreno fin dal principio e per tutta la sua vita, studia gli effetti del lavoro psicodrammatico sottolineando l’importanza del Gruppo, come aggregazione umana. Tenta anche di creare una Scienza di gruppo e del lavoro dei gruppi. Riconosce la dimensione biologica-sociale dell’uomo in un’epoca storica in cui questi concetti erano sconosciuti. Moreno rivolto a Freud: “Inizio là dove lei finisce. Nel suo studio lei pone le persone in una posizione artificiale, io le incontro per strada, a casa loro, nel loro ambiente naturale. Lei analizza i loro sogni, io cerco di dar loro il coraggio di sognare ancora. […]”. La Drammaterapia Il termine Dramma-terapia nasce per la prima volta nel 1959 con l’opera di Peter Slade, maestro inglese del Teatro educativo. Rispetto allo psicodramma moreniano, si afferma come disciplina, più tardi, negli anni 70 del secolo scorso in Gran Bretagna per poi diffondersi negli Stati Uniti e in Canada e solo successivamente nel resto dell’Europa. La British Association for Dramatherapists così definisce la Drammaterapia: “… è una forma di terapia psicologica, in cui tutti gli strumenti della rappresentazione teatrale sono utilizzati all’interno della relazione terapeutica. I Drammaterapeuti sono nello stesso tempo artisti e clinici e attingono ai loro corsi di formazione in teatro/dramma e terapia per creare metodi per coinvolgere i clienti ad ottenere cambiamenti psicologici, emotivi e sociali. La terapia dà la stessa importanza al corpo e alla mente nel contesto drammatico; storie, miti, testi teatrali, burattini, maschere e improvvisazione sono esempi della gamma di interventi artistici di cui un Drammaterapeuta può servirsi…” Negli anni a venire sono le ricerche e i lavori di Sue Jennings (1978) che sviluppano la drammaterapia in percorsi curativi e di benessere, sancendo il passaggio definitivo “tra la forma teatrale che si piega a obiettivi terapeutici e/o educativi a l’arte drammatica rinnovata nel suo rinascere nuova in ogni gruppo, terapeutica in quanto creativa”, (S. Petruzzella, 2008). S. Jennings con la sua forza metodologica riesce a dare uno statuto epistemologico alla drammaterapia e un concreto riconoscimento della professione. Nell’ambito del panorama internazionale, altri importanti contributi provengono da Brian Way, Roger Grainger e Robert Landy. Dramma-Teatro-Terapia e Psicodramma a confronto Entrambi i metodi attingono all’uso di strumenti artistici per dare forma e stimolare processi formativi, riabilitativi e psicoterapeutici. In entrambi i metodi l’attenzione è focalizzata ai processi di integrazione mente corpo ( immaginazione-gesto-espressione-sentimento-pensiero-rappresentazione) Per la Dramma-Teatro-Terapia il corpo inteso in senso anatomico coincide con il vissuto emotivo, e i sentimenti sono il prodotto del corpo in azione. L’esperienza soggettiva del corpo fatta di sensazioni, percezioni, immaginazione, sentimenti e azioni rappresentano il sistema integrato di tutta l’esperienza terapeutica, esplorativa o riabilitativa. L’esperienza drammatica dell’azione: la posizione del corpo (postura) e il movimento del corpo nello spazio (acting), informa e racconta una storia: “chi sono, cosa sto provando ora, cosa significa questo per me”. Tutti i livelli comunicativi: preverbali (gesti, espressioni facciali spontanee), prossemici (come il corpo si muove nello spazio relazionale e occupa lo spazio), paraverbali (ritmo, tono della voce, timbro), verbali (parole), rappresentano la complessità dell’essere umano che immagina se stesso in relazione col mondo. Nello spazio-tempo della “metafora teatrale” le azioni propongono una narrazione che ha a che fare con la vita di ognuno di noi, con pensieri, sentimenti, desideri che nella loro essenza ci appartengono. In questa accezione il teatro è universalmente comprensibile e condivisibile. Questa potenzialità fa parte della struttura profonda dell’uomo e presiede al gioco infantile, un gioco condiviso di “storie comuni”. La scena teatrale, definisce uno spazio transizionale e opera come un ponte tra il mondo interno e quello esterno. E’ lo spazio dove l’illusione e il gioco sono accettati. Lavorando con la Dramma-terapia o con lo Psicodramma le persone sono accompagnate a portare il mondo della memoria, della fantasia e del mito nella scena terapeutica, dove il contesto del come-sé permette una maggiore libertà di esplorazione e d’espressione. Come nel teatro, nel lavoro dramma-terapeutico è la credibilità della finzione, che consente alla persona di assumere quella giusta distanza estetica (protettiva) affinché possa immaginare e quindi rappresentare se stessa “come se” fosse un’altra, in modo, appunto credibile. In tal senso il concetto della credibilità della finzione diviene, esso stesso, un obiettivo, perché presuppone un lavoro basato sul riconoscimento, la modulazione, l’integrazione e l’espressione dei propri stati affettivi, attraverso l’esperienza di sé. Gli aspetti terapeutici del teatro hanno antiche origini, già Aristotele nella sua Poetica introduce il concetto di catarsi come la purificazione e liberazione delle forti passioni rappresentate nella tragedia greca. Oggi le evidenze della ricerca psico-neuro-fisiologica, le scienze cognitive, nonché gli studi sull’infant research, spiegano meglio come e perché gli interventi integrati mente-corpo, in arteterapia possono essere efficaci strumenti di cura e di crescita personale. Lavorare con le tecniche teatrali in psicologia e riabilitazione consente di svelare delle parti più autentiche di sé che possono essere bloccate o inibite sotto la maschera dei ruoli sociali-educativi, permettendo il recupero della spontaneità e della libertà creativa. Lo Psicodramma e la Dramma-teatro-terapia sono metodi psicoterapeutici simili, che hanno radici comuni, ma si focalizzano su diversi aspetti del processo espressivo. Diversamente dallo Psicodramma, la Drammaterapia o Teatroterapia non ha un singolo fondatore e negli ultimi trent’anni questa disciplina è andata sempre più evolvendosi integrando paradigmi teorici e clinici diversi, divenendo sempre più sofisticata. Le differenze principali tra le due discipline arteterapeutiche riguardano la diversificazione dei metodi utilizzati: lo Psicodramma moreniano non utilizza una “metodologia teatrale” e non ha un “paradigma artistico” ma utilizza il lavoro dei ruoli e il teatro solo come metafora. Mentre la Drammaterapia è un Arteterapia in senso stretto, assume nella sua complessità l’intero impianto teatrale: spazio scenico, percezione dello spazio, presenza scenica, allusione scenica, ruoli, personaggi, burattini, maschere, musica, tecniche psicocorporee, lavoro sulla voce, improvvisazione, immaginazione, rappresentazione. Inoltre la Drammaterapia lavora indirettamente sui vissuti autobiografici e sui contenuti inconsci della persona, modulando la distanza estetica, mentre nelle regole dello Psicodramma i partecipanti lavorano direttamente sui contenuti consci e inconsci della propria storia individuale. Per entrare sempre più nella complessità dell’intervento arteterapeutico del Dramma un’altra differenza tra i due metodi consiste nella diversa gestione delle dinamiche di gruppo. Foulkes (1964, p.104) utilizza il concetto di “matrice” per indicare il terreno comune da cui si genera un gruppo, inoltre la matrice rappresenta l’elemento comune che permette la comunicazione tra i membri. Qualsiasi comunicazione del gruppo e al gruppo, sia in forma verbale che in forma non verbale, provoca una risonanza negli altri membri del gruppo e nel terapeuta. Le dinamiche possono essere evidenziate dal conduttore e vengono affrontate in gruppo. La matrice quindi, riguarda il gruppo in qualsiasi contesto intersoggettivo, sia che si riferisca ad un gruppo analitico, psicodrammatico o drammaterapeutico. La differenza consiste, nell’importanza attribuita e nella modalità di intervento che il conduttore mette in atto, a seconda dello scopo da perseguire. Nella Drammaterapia la matrice del gruppo viene esplorata in modo libero e fluttuante, mentre nello Psicodramma viene definita nei primi cinque minuti di una sessione ed informa sulla scelta del protagonista. Anche il ruolo del terapeuta cambia a seconda delle tecniche utilizzate. Nello Psicodramma il conduttore è maggiormente direttivo, mentre può avere una presenza più facilitante il dramma-terapeuta, ma sostanzialmente le funzioni principali sono le stesse: analista, terapeuta, leader di gruppo, regista. Nel lavoro dramma-terapeutico molto spesso possono essere presenti le prove e lo spettacolo, una performance conclusiva. In Italia i paradigmi teorici contemporanei (Ruggieri, Petruzzella, Cavallo, Rossi e altri) e le ricerche nel campo delle Artiterapie collocano la Drammaterapia come una disciplina di confine tra Scienza e Arte, partendo dall’idea che ogni individuo abbia delle capacità drammatiche naturali e intersoggettive fin dal suo sviluppo: imitazione, identificazione, risonanza empatica, sintonia affettiva, potenzialmente attive per tutta la vita. In Dramma-Teatro-Terapia i copioni da rappresentare come strumento terapeutico, educativo e/o riabilitativo sono generalmente scelti da testi del teatro, classico e/o contemporaneo proposti dal conduttore o dai partecipanti, ma vengono utilizzate anche storie autobiografiche, poesie, racconti, etc. I testi, improvvisati o non, vengono scelti tenendo conto delle esigenze terapeutiche e degli obiettivi da perseguire. Anche in questo caso le fasi sono assimilabili al modello psicodrammatico e possono essere sintetizzate in: fondazione (conoscenza iniziale e utilizzo di tecniche psicocorporee), creazione (messa in scena del testo con tutti i suoi elementi e la rappresentazione), condivisione(lavoro di gruppo sull’esperienza drammatica). Nel Teatro, come nella pratica Drammaterapeutica, “il corpo gioca a “mettere in scena”, a portare esistenza, altri immaginari possibili. La creazione di un nuovo “qui e ora” annoda mille immaginari possibili…”, (V. Ruggieri, 2001). Un corpo presente “contiene” dinamicamente la concretezza della libertà immaginativa tra passato e futuro. Articolo integrale su www.teoriaperta.it

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Fassone G., Lo Reto F., Foggetti P. et. Al.:

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